Conosciamo meglio l’autrice.
Tindara Lanza de’ Rasi è originaria di Montagnareale (ME).
Giornalista e insegnante, referente alla comunicazione presso un istituto comprensivo, ha pubblicato centinaia di articoli nelle riviste di settore scolastico nazionale. Ha collaborato inoltre alla realizzazione di guide per docenti presso Giunti-Del Borgo, il Capitello e La Scuola Editrice.
Con alcuni racconti e poesie ha vinto medaglie ed è stata inserita in antologie letterarie.
È autrice di un libro di agiografie dal titolo La santità nella Maremma Grossetana. Santi, beati, venerabili ed eremiti, assieme a don Josè De La Torre Paredes, pubblicato presso la Casa Editrice Effigi nel 2016.
A livello internazionale, ha scritto la prefazione, curato la redazione editoriale e revisionato la traduzione dall’albanese all’italiano del libro di Fatmir Koliqi, Narrazione dell’identità spirituale degli albanesi. Approccio estetico-letterario del romanzo di Dodë Gjergji “Ritorno” I, II, III, edito da Drita &55, e pubblicato a Prishtina (Kosovo) nel 2021.
Ciao Tindara! Come nasce l’amore per la scrittura?
Ho sempre amato scrivere. Fin da adolescente mi sono cimentata nella stesura di narrativa dai risvolti stilistici e psicologici strani, e di romanzi d’amore smaccatamente adolescenziali. Quando ho iniziato a lavorare come docente e sono contestualmente diventata mamma, mancandomi il tempo per realizzare opere più lunghe, ho dirottato il mio impegno verso le poesie e i racconti brevi. Nel periodo da studentessa, invece, redigevo i classici temi letterari o sociali, i miei preferiti, con un impegno magistrale: erano creazioni lunghissime, articolate, complesse, vere opere di ingegno creativo che facevano impazzire i professori quando dovevano correggere l’elaborato. Il mio stile è sempre stato “costruito”. Adotto da sempre, per tendenza espressiva personale, tecniche letterarie diverse, miscelandole fino a creare impalcature articolate e multisfaccettate. Solo quando nel 2005 sono diventata giornalista pubblicista, ho ridimensionato molto il mio stile, rendendolo più asciutto e lineare per esigenze di stampa. Ma a livello di opere narrative, io amo giocare con il lettore e variare il mio modo di scrivere anche nello stesso libro. Mi piace creare pezzi artigianali “disordinati”, multisfaccettati, impastando linguaggio barocco e siciliano, con linguaggio moderno e internazionale. È la vita di oggi, ed è quella che mi rappresenta. Scrivere è il mio modo di autonarrarmi e di narrare questo tempo storico e sociale così variegato e unico.
Parliamo un po’ di questo libro “L’ibiscus stava fiorendo”, che ci mostra l’incontro di due realtà distinte quella lombarda e quella isolana. Come secondo te questi due mondi culturalmente lontani possono avvicinarsi?
Non siamo apolidi, siamo italiani appartenenti alla stessa statualità, anzi siamo cittadini del mondo. A Milano come nel golfo di Patti, abitiamo comunque il pianeta Terra. In questo caso, come dice un mio amico geologo, anche se Milano fa parte della placca euroasiatica e la Sicilia è interessata dal blocco siculo-ibleo, siamo rappresentativi dell’unica categoria geologica, geografica e territoriale per me concepibile: quella di esseri umani che fanno parte di un unico consorzio civile. Generalmente, quando si incontrano due persone di paesi diversi, la prima cosa che si nota riguarda le diversità e le differenze negli stili di vita, negli accenti, nei costumi tessili e sociali. Vivere al Nord o vivere al Sud fin da quando si è nati, vuol dire aver assimilato modi di dire, di vivere, di cibarsi, di intrattenersi diversi, dai quali è difficile sganciarsi. E quando due intrugli si miscelano – vuoi per casi voluti, come è accaduto a me stessa, vuoi per casi fortuiti, come accade alla protagonista milanese del libro trapiantata in Sicilia per lavoro – non può che venirne fuori una reazione chimica molto energica e fumigante. La saggezza consiste nel liberare quella parte di sé che spesso ci incatena ad una vita acquietata ma incompleta, individuando i pezzi mancanti che non si sapeva di avere e che solo permettendo alle proprie radici di essere messe alla “prova della sete esistenziale” e di farsi finalmente nutrire anche da altre linfe vitali, saltano fuori. Uso questi termini non a caso, poiché Mirella Coresca, “-la Mire -lla” protagonista del libro (tanto per giocare con la linguistica e i circonfissi morfologici che in milanese sono frequenti), è una garden designer. Stare nella stessa situazione, nello stesso luogo, nella comfort zone di sempre, anche se non ce ne accorgiamo, non ci permette di “completarci” correttamente. Però le differenze servono e diventano valore, solo se impariamo a riconoscerle come corroboranti e arricchenti per noi stessi. Non si tratta mai di avvicinare due mondi culturali o storici distanti, ma di unificare le esistenze (al plurale) con l’esistenza (al singolare). Siamo tutti un unico organismo vivente.
Qual è stato lo spunto? Come è nata l’idea di questo libro?
Mi appassiona la storia locale e antropologica. Vicino al mio paese di origine, Montagnareale in provincia di Messina, esistono ancora oggi isole linguistiche alloglotte di derivazione dalle lingue gallo-italiche. È un parlare curioso, sincopato, tamburellante. In un preciso momento storico, con l’arrivo di Ruggero I e di Adelasia del Vasto in Sicilia, nell’anno Mille, linguaggi e culture del Nord, delle zone lombarde e normanne, si miscelarono a quelli del Sud, abitato allora da arabi, fenici, greci. La Lombardia e la Sicilia hanno quindi un substrato storico e sociale con molti punti in comune, per ritornare al discorso della ‘combine’ tra culture di prima. E hanno personaggi storici che convergono. Adelasia del Vasto, una contessa diventata poi anche regina di Gerusalemme, madre di Ruggero II il primo re di Sicilia, ava dell’imperatore Federico II, è seppellita a Patti, una città della costa messinese che mi ha vista nascere e studiare. Ma Adelasia era originaria del Monferrato. La sua storia mi ha sempre affascinato perché la mia famiglia italo-americana ha vissuto in prima persona migrazioni oltre confine. Ho immaginato a lungo quell’adolescente che, all’inverso di me emigrata nel centro Italia o dei miei avi andati oltre oceano, era arrivata nell’isola siciliana in pieno Medioevo, chissà quanto altrettanto frastornata. A Mileto, in Calabria era convolata a nozze con Ruggero I, un condottiero sceso lì su mandato per liberare i territori occupati dai saraceni. Come lui, anche lei non era del Sud. Non parlava greco, non parlava arabo, non parlava la lingua locale. E non conosceva i costumi, non conosceva le usanze, i luoghi. Come avrà fatto ad ambientarsi? Quanto ci avrà messo a radicare? Che nostalgie si è portata nel cuore? E cosa può accadere ad una donna di oggi, abituata a vivere in pieno centro a Milano, nel cuore della Lombardia, emigrando in Sicilia? Una donna in carriera difficilmente abbandonerebbe la sua vita impegnata e ricca di agi, per una diversa in terra siciliana. Ma se accade? Come finirebbe per svilupparsi la sua interlingua? Il molto lombardo-inglese di oggi come il tanto gallico di allora, miscelato al siciliano, potrebbe portare alla creazione di un’isoglossa nuova come fu ai tempi di Adelasia del Vasto? Con il personaggio di Mirella Coresca, ho voluto indagare l’emigrazione al contrario, quella che non è fatta di disperazione per emergenza di vita, come accaduto ai miei consanguinei finiti in Argentina all’inizio del Novecento, ma è frutto di casualità arricchente o di scelta personale, l’emigrazione/immigrazione che, se finalizzata ad una sana integrazione, ridefinisce davvero, in positivo, i caratteri sociali di un territorio e di un’anima.
La scelta del titolo, immagino sia sempre complicato scegliere un titolo, definisce l’opera per sempre.
Il tuo titolo come lo hai scelto?
Ovviamente rimanda al lavoro di architetta paesaggista della protagonista e alla sua vicenda esistenziale. Ma è anche una velleità che prende a piene mani dalla linguistica e dai processi fonologici. Mi piaceva quella specie di scempiamento che produce l’involontaria geminazione consonantica tra la ‘s’ finale di “ibiscus” e la ‘s’ iniziale di “stava”. Leggendo velocemente il titolo, in confine di parole si genera un sandhi esterno: le due ‘s’ si scontrano collidendo tra loro e ne viene falsata l’ortoepìa. “L’ibiscus stava fiorendo” in definitiva produce il suono ideale, il soffio sonoro pasticciato più rappresentativo di quella unità combinatoria che avviene per scontri vivaci ma alla fin fine agglutinanti, come spesso nella vita.
E adesso? Progetti in cantiere? Idee? Su cosa stai lavorando?
Nel libro “L’ibiscus stava fiorendo” ho adottato volutamente un linguaggio corposo, tendente al classico pur se meticciato con l’inglese, perché quel testo, scritto da un’autrice che ad un certo punto rischia anche di arenarsi per decenni, perdendo il suo “afflato ispiratore”, non è una storia romanzata così come appare in superficie, ma una “biografia storica” su Mirella Coresca, alter ego di Adelasia del Vasto. Tutto ciò lo si comprenderà meglio nei prossimi libri. «Come climax a cerchi concentrici, questo primo romanzo è infatti solo il livatèddu (in siciliano), il sourdough (in inglese), il lievito madre (in italiano) dal quale tramite criptocitazioni precise si dipartiranno altre storie successive.» Attenzione, rischio spoiler: vi ho proprio anticipato una frase originale del sequel, già inserita tra i capitoli. Insomma, nella jìbia siciliana è stato buttato un secondo sasso, i cerchi concentrici della prossima creazione letteraria sono già ripartiti. Sto lavorando ininterrottamente da mesi e fino ad ora “l’afflato ispiratore”, per citare Mirella e la sua storia, mi sta accompagnando con costanza.
Ultima domanda, facciamo un gioco. Tra tutti i libri ne puoi salvare solo tre.
Che libri sceglieresti da portare con te?
Devo proprio? Come tutti gli scrittori che si sentono porre questa domanda, anche io, con poca originalità e nessuna discordanza da loro, manifesterò pavidamente di non riuscire a farvelo, questo elenco. La mia scusante? Amo ogni genere di letteratura. Leggo tutto e mi appassiona tutto, in particolar modo i romanzi scritti con un lessico impegnativo e riflessivo. Non amo invece il crime trucido. La lettura mi aiuta a decongestionare dalla frenesia di ogni giorno, ma quando scrivo, mi suggestiona soltanto la vita vera, mio marito, i miei figli, i miei piccoli alunni. Sono loro i libri che amo leggere di più.
Propongo quindi un accordo al rialzo: vi elenco semplicemente gli ultimi quattro libri che ho letto. Quattro, e non tre, per questione di rapporto aureo personale: due di donne, due di uomini. Anche se la letteratura, ovviamente, non ha sesso se non per l’analisi grammaticale. Ve li suggerisco, seguendo l’ordine casuale della loro disposizione sul piano del mio scrittoio, non del mio gradimento. Eccoli.
– Amurusanza, di Tea Ranno.
– L’isola dei battiti del cuore, di Laura Imai Messina.
– Che tu sia per me il coltello, di David Grossman.
– Romanzo naturale, di Georgi Gospodinov.